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Opinione

«The Ed Gein Story»: chi è davvero il mostro?

Luca Fontana
17.10.2025
Traduzione: Nerea Buttacavoli

Milioni di persone stanno guardando in streaming «Monster: The Ed Gein Story» – e osservano un uomo mentre impazzisce. Ma la cosa davvero inquietante non è tanto ciò che accade sullo schermo, quanto ciò che scatena in noi.

Wisconsin, 1957. Nel capanno di un contadino taciturno, la polizia trova qualcosa che fa ammutolire anche gli investigatori più esperti: corpi decapitati, sventrati come selvaggina. Gilet di pelle umana – con capezzoli. Ciotole fatte di teschi. Maschere realizzate con volti veri. Sui fornelli, interiora che cuociono a fuoco lento.

Il nome del contadino: Ed Gein.

Quello che aveva fatto negli anni precedenti andava oltre ogni immaginazione. Saccheggiava tombe, preparava parti di corpi e ricavava dai cadaveri mobili, paralumi e interi costumi. Ha inoltre ucciso delle persone; due omicidi sono stati provati, ma probabilmente erano di più. Anche altre atrocità lo hanno reso una delle figure più famose della storia criminale americana.

Anche se mi si contorce la faccia per il disgusto e le immagini mi perseguitano ancora a distanza di minuti, non posso farne a meno: ogni volta che scorrono i titoli di coda, premo «Prossimo episodio» e continuo a guardare l'orrore.

Perché mi sto facendo questo?

Perché tutti noi ci stiamo facendo questo?

Empatia per il male

Forse l'inquietudine non sta nel «cosa» vediamo, ma nel «come» lo vediamo. Serie come «Monster» non si limitano a mettere in scena il male da lontano. Si avvicinano così tanto che possiamo quasi sentire il suo respiro.

Nella serie Netflix, ad esempio, vediamo il giovane Ed Gein torturato dalla madre fanaticamente religiosa. Lo vediamo come un uomo distrutto e solo, che non capisce cosa farsene del mondo – e il mondo di lui. E all'improvviso accade qualcosa che mi turba più di qualsiasi dettaglio cruento...

Provo empatia.

Non che ora improvvisamente capisca, giustifichi o trovi una scusa per le sue azioni. Ma sto cominciando a rendermi conto dell'abisso, o almeno a credere di farlo. All'orrore viene data un'origine, al mostro un volto. Ed è qui che inizia il conflitto morale.

Beh. Perché proviamo comunque empatia?

Nelle mani di un regista di talento, l'empatia diventa uno strumento: ci costringe a guardare con compassione dove preferiremmo distogliere lo sguardo con disgusto. Anche questo contribuisce al fascino che il true crime esercita sul pubblico.

Perché il male ci tranquillizza

Per coloro che si sentono comunque attratti da queste storie, tuttavia, Jeglic fornisce possibili ragioni: nel true crime, alcuni cercano scenari in cui le vittime si difendono da sole, come silenziosa riabilitazione delle proprie esperienze di impotenza. Secondo Jeglic, altri potrebbero cercare di «rivivere i traumi del passato in un ambiente sicuro, ma questa volta con maggiore controllo».

Il true crime, dice, può essere una sorta di esposizione psicologica per alcune persone: osservare, studiare e capire il male senza essere davvero alla mercé di esso – al sicuro e dal divano.

Gli spettatori allo specchio

Empatia e controllo. Bastano per spiegare il nostro fascino per il true crime e la violenza? Lo showrunner Ryan Murphy non ce la fa passare così facilmente: «Volevo riportare la telecamera su di noi», continua nell'intervista a Variety. «Ogni generazione crea il proprio cattivo – e ognuna deve aumentare la violenza perché quella precedente non la sconvolge più».

Una tesi azzardata. Ma non sbagliata.

Così, quando milioni di persone guardano ipnotizzate Charlie Hunnam che racconta le sue azioni nei panni di Ed Gein, non si tratta più solo di lui, ma di noi. Della domanda sul perché il male sullo schermo ci attrae così magicamente, anche se – o proprio perché – lo troviamo ripugnante. Il co-creatore Ian Brennan la mette così: «Non raccontiamo solo di lui, ma mostriamo noi stessi. Siamo ossessionati da quest'uomo».

Questo è il vero aspetto che rompe i tabù di questa serie: da un lato vediamo la smorfia di un assassino, dall'altro la nostra curiosità. Rabbrividiamo perché sappiamo che non dovremmo guardare, ma vogliamo farlo lo stesso. La serie ci mostra il nostro stesso fascino quando Ed Gein guarda direttamente nella telecamera e ci parla con voce infantile:

«Sei tu che non riesci a guardare altrove».

Il mostro dentro di noi

Non credo che guardiamo queste serie per vedere dei mostri. Le guardiamo per rassicurarci che noi non lo siamo. Che riconosceremmo il male se dovessimo incontrarlo. Che non potremmo mai essere perduti come quelli che giudichiamo sullo schermo. Eppure sono proprio queste serie a dimostrare che il male ci affascina, purché ci sia permesso di incontrarlo a distanza di sicurezza.

Finché gli abissi che vediamo non sono i nostri.

Ciò che rimane è questo sentimento ambivalente: disgusto ed empatia, paura e fascino. Interconnessi indissolubilmente. È proprio qui che risiede la verità di queste storie: ci confrontano non tanto con ciò che ha fatto Ed Gein, ma con ciò che noi stessi saremmo capaci di fare una volta che i confini tra dolore, potere e umanità diventano più labili.

Per quanto mi riguarda, probabilmente continuerò a guardare questo abisso, finché non dovrò inevitabilmente pormi la domanda più scomoda di tutte: abbiamo davvero bisogno di queste serie per capire cosa trasforma le persone in mostri? O sono loro ad avere bisogno di noi, il pubblico, per legittimare la loro esistenza?

La colonna dei commenti è pronta.

Immagine di copertina: Netflix

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Scrivo di tecnologia come se fosse cinema – e di cinema come se fosse la vita reale. Tra bit e blockbuster, cerco le storie che sanno emozionare, non solo far cliccare. E sì – a volte ascolto le colonne sonore più forte di quanto dovrei.


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