Netflix
Opinione

Un'ultima domanda a «Squid Game 3»

Luca Fontana
11.7.2025
Traduzione: Leandra Amato

«Squid Game» non ha mai promesso che alla fine sarebbe andato tutto bene. Ma ha lasciato qualcosa di molto più prezioso: una storia sull'umanità e su quanto sia difficile preservarla in un mondo disumano.

Attenzione: questo è un articolo di opinione con spoiler su tutte e tre le stagioni di «Squid Game».

Gi-Hun tiene il bambino tra le braccia come un ultimo pensiero verso il bene. Le sue dita tremano per lo sfinimento. Il suo viso è segnato dalla stanchezza. Ha visto troppo. Ha perso troppo. Eppure, potrebbe vincere. Ora. L'ultimo avversario davanti a lui pesa a malapena tre chili, è indifeso, silenzioso e avvolto in una tuta macchiata di sangue. Non è più un ostacolo. Nessun rischio. Solo un ultimo atto di egoismo.

Ma Gi-Hun fa una pausa.

Il bambino, simbolo di innocenza, speranza e futuro.
Il bambino, simbolo di innocenza, speranza e futuro.
Fonte: Netflix

«Non siamo cavalli da corsa», dice. Silenzioso. Sfidando quelle parole che un tempo gli furono lanciate dal Frontman come minaccia. Poi alza la testa. «Siamo esseri umani».

Posa il bambino con cura sul pavimento, lì dove nessuno può calpestarlo. Dove nessuno può più costringerlo a essere parte di questo gioco. All'improvviso la stanchezza scompare dal volto di Gi-Hun. C'è solo chiarezza stoica. Gi-Hun si gira. Non guarda l'abisso mortale che si apre davanti a lui, ma gli volta le spalle.

«E le persone sono...».

Poi si lascia cadere all'indietro – game over.

Il prezzo dell'umanità

Sono senza parole. Mi sento vuoto. Triste. Confuso. «Sì, ma che cosa sono le persone?», mi chiedo mentre cerco di elaborare la morte del protagonista che ci ha accompagnati per anni in «Squid Game».

Nel 2021 è iniziato «Squid Game» come una parabola perfida su un mondo ormai divorato dal capitalismo. Come specchio di un sistema che rende le persone nemiche con il pretesto del libero arbitrio. Chi partecipa ha finalmente la possibilità di vincere miliardi. Chi rinuncia, perde invece tutto. Non solo il gioco. Anche la vita.

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Nella prima stagione si parlava della meccanica: come funziona questo sistema? Chi c'è dietro? E fino a che punto si spingono le persone quando non hanno nulla da perdere? Le risposte erano scioccanti. Ma anche rivelatrici: proprio come i VIP nella serie, abbiamo osservato affascinati se i partecipanti fossero disposti a sacrificare la loro umanità se la loro sopravvivenza dipendesse da questo – e dove avrebbero tracciato un confine.

Allo stesso tempo, la serie ha espresso ciò che molti sentivano da tempo: che il valore di una persona non viene più misurato dalla sua dignità, ma dalla sua utilità. Il creatore di «Squid Game» Hwang Dong-hyuk ha definito la sua serie un eco della storia industriale sudcoreana – dalla dittatura militare all'esportazione, dalle rivolte sanguinose alla globalizzazione neoliberale. In mezzo a questa frenetica ascesa: perdenti che non hanno mai avuto una possibilità equa. Persone anziane. Immigrati. Indebitati. Sradicati.

Persone come Gi-Hun.

Forse giocano per vincere, ma sono loro i veri perdenti del sistema: le persone che cadono nel baratro dell'ascesa economica.
Forse giocano per vincere, ma sono loro i veri perdenti del sistema: le persone che cadono nel baratro dell'ascesa economica.
Fonte: Netflix

Nelle stagioni 2 e 3 il gioco rimane lo stesso, ma la prospettiva cambia. Certo, le regole sono chiare: chi vince, vive; chi perde, muore. Alcuni accusano la serie di ripetersi. Ma chi in «Squid Game 2 e 3» vede solo «more of the same», non ha riflettuto abbastanza. Non è più il «come» del sistema a essere al centro dell'attenzione, ma il «cosa fa con noi». Si tratta del prezzo che paghiamo per sopravvivere. Per ciò che rimane di noi.

O meglio: per ciò che perdiamo durante il cammino.

Il Frontman come persona fallita

La lotta per l'anima dell'umanità non si svolge con armi – anche se a prima vista sembra tutto sangue e proiettili – ma sotto forma di due convinzioni concorrenti: quella del Frontman e quella di Gi-Hun. Entrambi erano giocatori. Entrambi sono sopravvissuti. Ma solo uno di loro è rimasto umano.

In-ho, l'attuale Frontman, non è un cattivo nel senso classico del termine. Non è spinto dal potere o dalla gloria, ma dalla disperazione. Da ciò che la fede nel bene gli è costato. Prima ha perso la moglie e il figlio. Poi anche se stesso. Prima nel gioco. Poi anche oltre. Lo vediamo in brevi flashback. Lentamente. Così, come gli esseri umani si perdono. Passo dopo passo.

Dove il Frontman nella prima stagione era «solo» il cattivo burattinaio dietro le quinte, diventa poi il personaggio più complesso e avvincente della serie.
Dove il Frontman nella prima stagione era «solo» il cattivo burattinaio dietro le quinte, diventa poi il personaggio più complesso e avvincente della serie.
Fonte: Netflix

Nessun dubbio: il Frontman ha visto l'inferno e ha deciso che la speranza non ha spazio lì. La sua costante domanda a Gi-Hun – «Credi ancora negli esseri umani?» – non è una provocazione. È uno specchio. Perché In-ho ha ormai abbandonato questa fede. Disperatamente cerca qualcuno che gli dimostri che aveva ragione – solo per non dover ammettere che forse avrebbe potuto scegliere un altro modo.

Ma Gi-Hun si rifiuta di fornirgli questa dimostrazione. Rimane un fattore di disturbo nell'immagine del mondo di In-ho. Perché non attenua. Non partecipa. Perché Gi-Hun, nonostante tutto, crede ancora che alla fine andrà tutto bene. Forse In-ho una volta la pensava allo stesso modo. Forse avrebbe preso altre decisioni, se avesse avuto persone intorno a sé, come Gi-Hun le ha avute nella prima stagione. Ali. Sae-byeok. Il-nam. Amici, che lo hanno salvato. E che lui ha perso.

Tra Gi-Hun e il Frontman c'è una delle guerre di fede più emozionanti della recente storia televisiva.
Tra Gi-Hun e il Frontman c'è una delle guerre di fede più emozionanti della recente storia televisiva.
Fonte: Netflix

Alla fine, è Gi-Hun che si sacrifica per il bambino, che smuove qualcosa in In-ho. Nessun cambiamento. Non ancora. Ma una commozione. Uno strappo nell'armatura che si è costruito negli anni. Forse era perso da tempo. Forse non se n'era mai andato del tutto. Ma da qualche parte, nel profondo, per un attimo qualcosa si accende – un ricordo di ciò in cui una volta credeva. Di ciò che un tempo era stato.

Questa sensazione lo accompagna fino a Los Angeles, dove consegna il premio in denaro rimasto di Gi-Hun a sua figlia. E proprio lì, nelle strade accecanti di un Paese che si considera l'apice del mondo libero, si rende conto con un brivido di disgusto: il gioco ha già oltrepassato l'oceano. La nuova reclutatrice – interpretata da Cate Blanchett – sta già cercando nuovi partecipanti. Nuove vittime. Nuovi giochi.

Nuove maschere.

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Perché il sacrificio di Gi-Hun conta

Gi-Hun avrebbe potuto essere l'eroe che mette fine a tutto. Che fa saltare in aria il sistema, smaschera i VIP e ferma i giochi crudeli una volta per tutte. Il classico viaggio dell'eroe, come lo conosciamo. Il Luke Skywalker, che fa esplodere la Morte Nera con un solo colpo.

Ma «Squid Game» non è «Star Wars». E Gi-Hun non è un redentore. Nel mondo di «Squid Game» non basta un solo colpo. Nessun trionfo. Questo sistema è semplicemente troppo grande, troppo ben pensato e troppo radicato nel nostro mondo. Troppi ne traggono beneficio. E troppi stanno a guardare.

Nel frattempo ci sono giochi per smartphone, «affettuose» versioni retrò, uno spin-off americano e persino una versione reality show di «Squid Game», che guardiamo tutti con avidità. Cosa ci distingue ancora dai VIP?
Nel frattempo ci sono giochi per smartphone, «affettuose» versioni retrò, uno spin-off americano e persino una versione reality show di «Squid Game», che guardiamo tutti con avidità. Cosa ci distingue ancora dai VIP?
Fonte: Netflix

La serie non fa segreto di questo. Ci mostra un'umanità che si è impigliata in tutta la sua incoerenza. Nel potere, nella perdita di coscienza, nella speranza, nell'annullamento di sé. Anche Gi-Hun. Anche lui fallisce. Lui, un tempo retto, alla fine della seconda stagione diventa addirittura uno stratega. Inizia una rivolta. Gioca il gioco come se ne facesse già parte da tempo, e si lascia guidare dalla vendetta dopo il suo fallimento. Un singolo atto – eppure una rottura, una colpa che lo strazia interiormente.

Forse è stato quello il momento in cui ha perso. Non il gioco. Ma se stesso.

A differenza del Frontman, Gi-Hun però non si ferma lì. Dove altri affondano, lui cerca una via d'uscita. Non dal sistema, ma dalla spirale che l'avrebbe quasi distrutto. La sua umanità, che alla fine è stata preservata, non è quindi una coincidenza. È una decisione contro il gioco. Un atto di ribellione contro il sistema, che propaga la sopravvivenza a tutti i costi.

E proprio questa è la risposta che dà alla sua ultima domanda incompiuta. Non in parole. Ma in un ultimo gesto: il sacrificio di sé.

E le persone sono...

E ora, che ne è degli esseri umani? Le persone sono soprattutto una cosa: imperfette. Si rompono, si spezzano, si perdono. Ma possono anche ritrovarsi. Redimersi. Accendere la speranza, dove sembra che tutto sia perduto. Non perché siano forti. Lo fanno perché scelgono il bene. La vita. Gli altri.

La morte della preferita del pubblico Cho Hyun-ju, giocatrice 120, mostra come il sistema sia progettato per punire chi non pensa prima di tutto a se stesso.
La morte della preferita del pubblico Cho Hyun-ju, giocatrice 120, mostra come il sistema sia progettato per punire chi non pensa prima di tutto a se stesso.
Fonte: Netflix

Forse non riusciamo a finire il gioco. Forse ci saranno sempre nuovi VIP. Nuove maschere. Nuove reclute. Ma finché ci sono persone che decidono di non partecipare, non è ancora tutto perduto. Il sacrificio di Gi-Hun non è stato una vittoria sul sistema. Ma un atto di umanità contro ogni probabilità.

Forse è sufficiente.

Immagine di copertina: Netflix

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La mia zona di comfort consiste in avventure nella natura e sport che mi spingono al limite. Per compensare mi godo anche momenti tranquilli leggendo un libro su intrighi pericolosi e oscuri assassinii di re. Sono un appassionato di colonne sonore dei film e ciò si sposa perfettamente con la mia passione per il cinema. Una cosa che voglio dire da sempre: «Io sono Groot». 


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