
Recensione
«Ne Zha 2»: arriva un colosso cinese
di Luca Fontana
Dopo i velociraptor laser e le locuste, «Jurassic World – La rinascita» osa ricominciare da zero. Non una pietra miliare, ma forse un segno di vita e la prova silenziosa che, a volte, meno è meglio.
Questa recensione non contiene spoiler. Non svelerò più di quanto è già noto e visibile nei trailer. «Jurassic World – La rinascita» è nei cinema dal 2 luglio.
A volte mi chiedo se «Jurassic Park» non fosse tanto un film d'avventura quanto una storia secolare della creazione. Solo che Dio era un imprenditore megalomane che credeva che i miracoli potessero essere programmati come giostre da luna park. Invece dell'argilla, ha creato la vita con il DNA estratto da zanzare rimaste intrappolate nell'ambra per milioni di anni. E invece di riposare il settimo giorno, ha aperto le porte di un parco a tema con un bel
«Benvenuti a Jurassic Park».
Questa frase è ancora oggi così potente perché tocca qualcosa di indicibile: il desiderio di controllo su ciò che non siamo mai stati destinati a controllare. Proprio per questo è così fastidioso che negli ultimi decenni il franchise abbia dimenticato la sua vera essenza. Da etica a tumulto. Da timore a spettacolo. Da dinosauri a giocattoli...
E ora arriva «Jurassic World: Rebirth». Un film che non cerca nemmeno di reinventare la ruota, ma si chiede perché abbia smesso di girare e come ridarle slancio. Ci è riuscito?
Prima di parlare di «Jurassic World – La rinascita», devo fare un passo indietro. Torniamo al 1993, a quel momento al cinema che ha cambiato tutto.
Non si trattava solo della tecnologia pionieristica e dei dinosauri realistici. E non è stata solo la regia di Steven Spielberg, che ha saputo costruire la suspense perfetta prima di farla esplodere. Ciò che ha reso «Jurassic Park» una pietra miliare è stata la sensazione che si stesse toccando qualcosa di sacro e allo stesso tempo di profondamente pericoloso.
Il film si concentra sullo stupore. Ma non mostra le sue creature come mostri, bensì come animali. Esseri viventi con peso, comportamento, dignità. Il primo sguardo ai brachiosauri è stato una rivelazione. Anche il debutto del T-rex non si basa sulla forza bruta, ma sull'atmosfera. Ricordi? L'acqua che si increspa nel bicchiere. La telecamera che trema. Buio. Paura. Pioggia.
Torce rosse incandescenti.
Ma lo stupore da solo non basta. «Jurassic Park» è impregnato di una domanda morale che risuona in ogni scena: cosa significa creare la vita solo perché si può, senza chiedersi se sia il caso di farlo? Inoltre, ha personaggi che sono molto più che veicoli della trama: Malcolm, Grant, Sattler. Lo scettico. Il pragmatico. La ricercatrice.
Tutti ci fanno capire che c'è qualcosa di sbilanciato. È proprio per questo che il film funziona bene al di là degli incassi da B-movie. È una parabola sul progresso senza controllo. Curiosità senza responsabilità. Conoscenza senza saggezza. Capitalismo senza frontiere. Perché, come postulato da Michael Crichton nel romanzo, nessun sacrificio è troppo grande per non essere fatto, purché qualcuno lo paghi.
«Life … uh, finds a way», riassume Ian Malcolm.
Più il franchise diventava grande, più il suo impatto si riduceva. Un film sui miracoli si è trasformato in una serie sulla gestione dei rischi e sui «super-raptor» a bersaglio laser (non è uno scherzo). La domanda «Cosa abbiamo fatto?» ha lasciato il posto a «Cosa può fare il nostro velociraptor adesso?». E il gran finale di «Jurassic World – Il dominio» non riguarda nemmeno i dinosauri, ma locuste giganti preistoriche.
Locuste.
Con «Jurassic World – La rinascita» la situazione sembra cambiare. Almeno un po'. No, il settimo (!) capitolo del franchise non è ancora un capolavoro morale in grado di avvicinarsi all'originale. Ma ovviamente si è posto almeno la domanda giusta: come tornare alle qualità dell'originale?
All'inizio c'è una trama piacevolmente semplice con un dilemma morale: un'isola proibita, tre rari dinosauri il cui DNA vale oro in campo medico e una società farmaceutica che vuole trasformare tutto questo in denaro. In segreto, naturalmente. Perché alle persone non è permesso entrare nell'isola per ovvi motivi. Allo stesso tempo, una famiglia in viaggio per il mondo rimane bloccata proprio qui. Non bastano questi due filoni per mettere in moto una storia che non vuole cambiare il mondo, ma semplicemente raccontare un'avventura che sfugge di mano.
Gareth Edwards – fan dell'originale – dirige «La rinascita» con lo stesso stile che ha caratterizzato «Godzilla (2014)», «Star Wars: Rogue One» e «The Creator»: racconta la storia del gigante dalla prospettiva del piccolo. La sua cinepresa rimane spesso vicina al suolo, osservando l'incomprensibile ad altezza uomo. Niente fuochi d'artificio con effetti orchestrati da una prospettiva a volo d'uccello, ma stupore direttamente dal basso.
E quando il nuovo T-rex appare finalmente per la prima volta, non sembra una copia ormai stanca, ma diventa una delle scene d'azione più spettacolari e meglio allestite dell'intero franchise. Ombre ai margini della foresta. Increspature nel letto del fiume. Lo scricchiolio dei rami da qualche parte fuori campo. E poi... niente. Niente musica. Solo respiro, incertezza e silenzio prima che si scateni l'inferno.
È questo tipo di messa in scena che rende «La rinascita» così fuori dall'ordinario e allo stesso tempo lo avvicina all'originale più di quanto qualsiasi omaggio potrebbe mai fare.
Inoltre, la decisione di girare «La rinascita» in analogico su pellicola Kodak, come si faceva negli anni Ottanta, si rivela vincente in ogni immagine. L'aspetto è caldo, leggermente sgranato, con colori che sanno più di terra e fogliame che di schermo verde. È un'immagine che respira. Un look che sembra provenire dal periodo tra «Jurassic Park» e «Il mondo perduto», solo un po' più chiaro, più denso e più deliberatamente composto.
È nelle riprese paesaggistiche che il film dispiega tutto il suo effetto: una giungla verde e lussureggiante, alberi ricoperti di muschio, una luce che si insinua tra le foglie come macchie di sole su una fotografia dimenticata. In combinazione con set e location reali, questo crea una sensazione di autenticità che mancava a molti predecessori. Non una tempesta di effetti troppo stilizzati, ma un'esperienza visiva che osa tornare a essere naturale, nel senso migliore del termine.
Il film sa anche come fare centro dal punto di vista musicale. Alexandre Desplat cita i grandi motivi di John Williams con rispetto, ma non con riverenza. Introduce i propri accenti, che a volte si sviluppano in modo minaccioso, a volte malinconico, a volte maestoso. La colonna sonora non si accosta semplicemente alle immagini, ma le espande.
In momenti come questi, «La rinascita» assomiglia più che mai al buon vecchio «Jurassic Park».
E le figure? È qui che «La rinascita» si indebolisce. Per quanto riguarda la trama, il film sulla famiglia sembra essere un'aggiunta superflua. Mahershala Ali interpreta la sua parte con stoica calma, mentre Scarlett Johansson ha un buon inizio. Alla fine, però, rimangono piatti e noiosi come Chris Pratt e Bryce Dallas Howard prima di loro.
Solo Jonathan Bailey, nei panni del paleobiologo Henry Loomis, ci restituisce qualcosa che sembrava perduto da tempo: l'entusiasmo genuino. Lo sguardo di un ricercatore che ha atteso per tutta la vita questo momento e lo riconosce con stupore e rispetto, piuttosto che con uno slogan.
Ma per quanto la struttura, il ritmo e l'atmosfera siano riusciti nei primi due terzi, nell'atto finale «La rinascita» si perde nella sua stessa ambientazione e manda tutto all'aria.
La trama si dirige verso una resa dei conti che non si concretizza mai. Allo stesso tempo, il film propone alcune teorie interessanti. Ad esempio, che non è l'intelligenza ma la fortuna a determinare la sopravvivenza di una specie. I dinosauri non saranno stati particolarmente intelligenti, ma sono sopravvissuti per centinaia di milioni di anni. Gli esseri umani, invece? Superintelligenti, sì. Ma anche autodistruttivi. Supereremo a malapena la soglia del milione di anni prima di estinguerci.
Ma il film non fa assolutamente nulla di questo gioco mentale. Anche il dilemma morale relativo alle medicine esclusive e troppo costose rimane frammentario. Invece di un'escalation, c'è un finale che sembra stranamente neutro. Domande importanti rimangono senza risposta e anche una decisione centrale presa da un personaggio non viene realmente approfondita. E quando i titoli di coda scorrono improvvisamente, è come se qualcuno si fosse dimenticato di scrivere un ultimo atto.
Ciò che rimane quando le luci si riaccendono in sala non è delusione. Più che altro un'alzata di spalle silenziosa. «Jurassic World – La rinascita» è un passo nella giusta direzione, ma non un grande passo. Il film ricorda molto di ciò che un tempo era così speciale: stupore, tensione, atmosfera. Ma quando si arriva al dunque, manca il botto: nessun gran finale, nessuna risoluzione catartica, nessun momento memorabile.
Forse si poteva fare di più. C'è qualcosa di latente che non è ancora stato completamente scoperto. «La rinascita» dimostra che questo franchise può ancora vivere se non viene sovraccaricato dall'avidità tipica dei blockbuster. E forse questo è più di quanto abbia mai osato sperare dopo le piaghe delle locuste e dei velociraptor laser.
La mia zona di comfort consiste in avventure nella natura e sport che mi spingono al limite. Per compensare mi godo anche momenti tranquilli leggendo un libro su intrighi pericolosi e oscuri assassinii di re. Sono un appassionato di colonne sonore dei film e ciò si sposa perfettamente con la mia passione per il cinema. Una cosa che voglio dire da sempre: «Io sono Groot».