
Opinione
Mi piacerebbe dimenticare questi sette giochi per poterli rivivere per la prima volta
di Domagoj Belancic
Non tutti i videogiochi mi piacciono la prima volta che ci gioco. Con alcuni titoli mi serve un secondo tentativo per poterli apprezzare. I motivi sono tanti.
Sono un giocatore molto meticoloso. Quando inizio un gioco, voglio arrivare fino alla fine. Mi irrito a pensare ai giochi a cui, in passato, ho giocato solo per poco tempo. Ecco perché cerco di dare alla maggior parte di questi giochi almeno una seconda possibilità.
Il secondo tentativo non sempre ha successo. Ma con questi sette giochi è valsa davvero la pena riprovarci.
Il mio personaggio è il biker Deacon St John. Il gioco è ambientato circa due anni dopo lo scoppio di una pandemia che ha trasformato la maggior parte dell’umanità in zombie assetati di sangue (o, come li chiama il gioco, «freaker»). Deacon parte in motocicletta alla ricerca della moglie, ritenuta morta. Durante il suo viaggio all’interno del mondo di gioco aperto, combatte contro immense (!) orde di non morti e svariati avversari umani che rendono difficile la sua vita post-apocalittica.
Avevo delle aspettative eccessive nei confronti di «Days Gone». Nell’era della PS3 e soprattutto della PS4, i giochi degli studi Playstation erano per me il metro di misura di ogni cosa. «The Last of Us», «Uncharted», «God of War», «Spider-Man»: tutti blockbuster fondamentali di vari generi che avevano sempre alzato l’asticella per gli altri studios.
Poi è arrivato «Days Gone». Un gioco prodotto dagli studi Playstation che non era rivoluzionario, ma solo «ok». Le recensioni modeste (Opencritic: 72) mi avevano scoraggiato, ma volevo comunque dargli una possibilità. Purtroppo, ho dovuto concordare con gran parte delle impressioni della stampa specializzata – o magari le mie impressioni erano state influenzate proprio dalla stampa specializzata?
Ad ogni modo, la delusione è stata immensa. I dialoghi assurdi e gli intemezzi involontariamente ridicoli stridevano pesantemente con la narrazione raffinata a cui Playstation mi aveva abituato. Anche il gameplay open world non era riuscito a coinvolgermi nelle prime ore, soprattutto per colpa di tutorial confusionari e di un avanzamento molto lento nell’azione degli zombie.
Circa sei anni dopo il primo lancio, ad aprile 2025 Sony ha rilasciato il gioco in versione remastered per la PS5. Oltre ai miglioramenti grafici, questo aggiornamento a pagamento includeva anche una nuova modalità di sopravvivenza Permadeath e Arcade. Era inoltre supportato il feedback aptico del controller DualSense. Questi per me erano ragioni sufficienti per dare a Deacon e ai «freaker» una seconda occasione.
Senza qualsivoglia aspettativa e non influenzato dalle recensioni negative della stampa, mi sono tuffato nell’avventura. Ed ecco che al secondo turno è «scattato» qualcosa. Ovviamente i dialoghi e gli intermezzi sono ancora imbarazzanti. Ma il gameplay mi ha catturato. Soprattutto i combattimenti contro orde di freaker, a volte immense, sono davvero impressionanti. La sensazione di scappare da centinaia di non morti è incredibilmente intensa (e stressante), soprattutto nella nuova modalità di sopravvivenza Arcade, che offre un’azione non-stop.
Mi piace anche l’approccio non convenzionale al mondo di gioco aperto. La motocicletta di Deacon è lo strumento centrale su cui posso fare affidamento in questo mondo post-apocalittico. La devo riparare, rifornire e migliorare regolarmente. Non è bello allontanarmi troppo da questo rifugio sicuro: dopotutto, la prossima orda di freaker potrebbe cogliermi di sorpresa.
Dovrei affrontare ogni gioco senza avere grandi aspettative o idee precise e non devo lasciare che le mie impressioni vengano influenzate dalle opinioni di altre persone. «Days Gone» non è, sia chiaro, un classico imperdibile o intramontabile. E va bene così. Non tutti i giochi devono reinventare la ruota e stabilire nuovi standard, anche se provengono dagli studi Playstation, altrimenti così «perfetti».
«Balatro» è un gioco di carte roguelike con elementi di poker. Il principio di gioco è semplice: devo scegliere le mani di poker da una selezione di carte. Migliore è la mano, più punti ottengo. L’obiettivo è quello di realizzare un punteggio sempre più alto ad ogni turno di gioco. Tra un turno e l’altro, con il denaro guadagnato posso acquistare vari bonus, moltiplicatori e carte speciali per il mio mazzo.
Inizialmente avevo scaricato il gioco sulla mia Nintendo Switch. Il gameplay mi sembrava divertente. Ma non mi è mai venuta veramente voglia di giocare a «Balatro» su quella console. Quando uso la Switch collegandola al dock del televisore, ho voglia di giocare a dei «veri e propri» giochi per console. Anche quando sono in giro preferisco giocare a titoli un po’ più «complessi» sulla Switch.
Per farla breve: per me «Balatro» era qualcosa a cui giocare «ogni tanto» e non era in linea con il modo in cui utilizzavo la Switch.
Circa sei mesi dopo l’uscita su PC e console, «Balatro» è stato rilasciato anche per iOS e Android. A questo punto ho voluto verificare la mia teoria: avrò più voglia di giocare a «Balatro» se posso farlo sul cellulare a piccole dosi durante la giornata? La risposta è: certo che sì!
Per un po’ di mesi sono stato totalmente dipendente dal gioco. Ci giocavo in treno, prima di andare a letto e in bagno. C’era sempre abbastanza tempo per farci una partita. Ma poi le partite diventano due. E a volte anche tre. Questo titolo è perfetto come gioco da cellulare. Sono letteralmente innamorato del gameplay, semplice ma perfetto.
In futuro, penserò attentamente ai giochi che acquisto per le varie piattaforme. Infatti, alcuni giochi sviluppano tutto il loro potenziale solo quando posso giocarci al momento giusto e con il giusto hardware.
L’agente speciale Leon S. Kennedy deve trovare e salvare la figlia del Presidente degli Stati Uniti in un’area rurale della Spagna. È stata rapita da una setta religiosa. Leon si rende subito conto che c’è qualcosa che non quadra. I membri della setta sono tutte creature simili a zombie che cercano di eliminare Leon a tutti i costi.
Nel 2005, il quattordicenne Domagoj pensava che fosse incredibilmente figo avere un gioco horror «per grandi» sul suo Nintendo Gamecube, una «console per bambini». Quello che il quattordicenne Domagoj ancora non sapeva mentre inseriva il disco di «Resident Evil 4» nella console era quanto quel gioco lo avrebbe traumatizzato.
Io e quel titolo horror che aveva fatto tanto scalpore non eravamo compatibili. Dopo otto ore di gioco, ho dovuto smettere. Incubi, vampate di sudore, tremolii alle mani. Mi sono giurato che non avrei mai più toccato un titolo horror.
Con il remake di «Resident Evil 4», nel 2023 mi sono avventurato di nuovo nel genere dopo quasi 18 anni di astinenza dagli horror. La nuova edizione mi sembrava troppo bella per essere ignorata. Devo ammettere che all’inizio del gioco ero un po’ nervoso.
Anche se il remake era stato completamente rimaneggiato, molte delle ambientazioni e dei nemici erano ancora decisamente ispirati all’originale. Ho rivisto la piazza del paese che 18 anni prima mi mandava in fibrillazione. E ho incontrato di nuovo il «simpatico» uomo della motosega che ha popolato i miei incubi per anni. Ma non mi sono fatto prendere dal panico. Al contrario. Questa volta mi sono divertito ad avere paura. Un’esperienza completamente nuova per me, che me la faccio sotto con tutti gli horror. Forse perché ormai sapevo più o meno cosa aspettarmi? Oppure perché ormai avevo 18 anni in più e riuscivo a gestire l’orrore virtuale meglio di quanto non facessi prima.
Per quanto mi riguarda, non posso più imparare niente da questo errore. Ma se dovessi avere dei figli, starò molto attento alla classificazione per età e ai contenuti dei giochi.
Il mondo post-apocalittico di «Horizon» è dominato da giganteschi robot dinosauro. L’umanità – o ciò che ne rimane – vive in tribù primitive, senza alcuna conoscenza di come fosse il mondo prima dell’apocalisse robotica. Il mio personaggio è quello della guerriera dai capelli rossi Aloy, che mentre si avventura nell’enorme mondo di gioco aperto scopre gradualmente i segreti dei dinosauri di latta.
Sulla serie dei giochi «Horizon» incombe una maledizione. Ogni volta che esce un nuovo gioco della serie, viene messo in ombra da un gioco open world ancora più grande. Non mi credi? Dai un’occhiata a queste prove schiaccianti.
Difficile essere così sfortunati. Questo è anche il motivo per cui quando è uscito «Horizon: Zero Dawn» non mi ha conquistato subito. Dopo il mondo di gioco davvero aperto di «Breath of the Wild», mi sembrava che «Horizon» fosse un passo indietro sotto ogni punto di vista.
L’approccio rivoluzionario di Nintendo allo sviluppo dei mondi aperti era in netto contrasto con il mondo di gioco molto tradizionale creato dallo studio di sviluppo Guerilla Games di Sony. Meno libertà nei movimenti, meno misteri avvincenti nel mondo di gioco, ma in compenso più missioni banali e infiniti indicatori di missioni sulla mappa. Noiosissimo. Dopo circa dieci ore di gioco, mi sono arreso.
C’è voluto un po’ prima che l’entusiasmo per «Breath of the Wild» si placasse e potessi aprire di nuovo il mio cuore ad altri giochi open world. Circa due anni dopo il mio primo tentativo fallito, mi ributto nell’avventura post-apocalittica con i robot.
Senza il confronto diretto con «Breath of the Wild», vedo il mondo di gioco di «Horizon» da una prospettiva completamente nuova. Non mi soffermo su quello che «Horizon» fa peggio rispetto a «Breath of the Wild», ma riconosco quello che rende unico questo gioco.
Accetto il fatto che il mondo non sia completamente aperto. Non posso scalare tutte le montagne e librarmi nell’aria. E non mi succede di scoprire per caso segreti nascosti che mi lasciano a bocca aperta. In compenso, posso combattere contro robot killer alti diversi metri usando armi spettacolari e seguire una storia avvincente che mi tiene inchiodato al controller fino alla fine. Per di più, la struttura delle missioni, semplice ma sempre solida, mi motiva a finire completamente il gioco per conquistare il trofeo di platino.
Conviene fare delle pause tra i giochi che sono dello stesso genere o di un genere simile. Mettendo un po’ di distanza e staccandomi dal genere, ho visto molte cose da una nuova prospettiva.
Se c’è un gioco che merita di essere definito un «walking simulator», è «Death Stranding». Nell’epico gioco d’azione e avventura di Hideo Kojima, sono il corriere Sam Porter che, in una versione post-apocalittica degli Stati Uniti, trasporta rifornimenti vari a colonie remote e cerca di collegarle tra loro attraverso una rete di comunicazione. Per raggiungere la sua meta, Sam deve camminare molto con pesanti bagagli. Camminare moltissimo.
Il mondo di «Death Stranding» mi ha affascinato sin dall’inizio. Quando ho provato il gioco, appena uscito, non stavo vivendo in un gran periodo per quanto riguarda la mia salute mentale, quindi non ero nella situazione migliore per affrontare i temi piuttosto cupi trattati nel gioco.
Come si può intuire dal nome, in «Death Stranding» tutto ruota attorno alla morte. Delle creature invisibili («BT») che rappresentano un collegamento con la vita dopo la morte vagano per lo scenario post-apocalittico e attaccano Sam durante le sue spedizioni. Per vedere questi esseri, Sam utilizza un «Bridge Baby», ovvero un neonato prematuro che vive a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Nello stato in cui mi trovavo quella volta, questi concetti erano troppo difficili da accettare. Ho vouto staccare un po’ dal mondo senza speranza di «Death Stranding».
Circa tre anni dopo il primo tentativo fallito, ho deciso di dare una seconda possibilità al gioco. Questa volta durante le vacanze di Natale. Mi sentivo bene e speravo, questa volta, di riuscire a gestire meglio degli argomenti così cupi. Quando ho avviato di nuovo il gioco ero comunque nervoso.
Ma il mio coraggio ha dato i suoi frutti. Sapendo a cosa andavo incontro, ho capito meglio l’atmosfera opprimente rispetto alla prima volta. Anzi, ho iniziato a capire che il mondo apparentemente senza speranza di «Death Stranding» forse non era poi così disperato.
Ho letto il gioco come uno spunto per capire che anche quando le cose si fanno difficili, vale la pena coltivare e mantenere buoni rapporti con gli altri. Proprio come fa Sam Bridges quando crea la rete di comunicazione tra le singole colonie.
Altra cosa bella: anche se passavo la maggior parte del tempo completamente da solo nel mondo di gioco desolato, man mano che procedevo scoprivo sempre più tracce di altri giocatori di «Death Stranding» sparsi per il mondo. Nel gioco si possono costruire delle strutture, tipo ponti, strade o scale, che gli altri giocatori che hanno una connessione online possono usare. Mi sembra una cosa davvero commovente. Mi sento connesso a tutti gli altri fan anche se non comunichiamo direttamente.
È del tutto normale che un gioco mi spaventi un po’ a causa dei suoi contenuti pesanti, se non mi sento mentalmente al massimo. Quindi vale la pena aspettare tempi migliori e affrontare l’argomento con una prospettiva più positiva.
È la prima parte della trilogia remake del classico gioco di ruolo per Playstation. Qui impersono Cloud Strife, un mercenario che si unisce al gruppo eco-terrorista Avalanche per fermare la mega-corporazione Shinra. Quest’ultima succhia l’essenza vitale dal pianeta per produrre energia, con conseguenze a volte fatali.
Non vedevo l’ora che uscisse il remake, anche perché non aveva mai giocato all’originale. Il gioco mi ha preso fin dal primo momento. Mi sentivo perfettamente a mio agio nella città distopica di Midgar. Apprezzavo anche il sistema di combattimento in tempo reale rielaborato.
C’era però un problema: ho iniziato a giocare nel momento peggiore possibile, cioè poco prima delle vacanze. Ci ho giocato per circa dieci ore prima di dovermi separare dalla mia PS5 per un bel po’ di tempo. Dopo essere stato via per diverse settimane, mi sono lasciato distrarre dai giochi più recenti. E quando, dopo due mesi, mi sono deciso a riprendere il gioco in mano, ero completamente perso. Dove mi trovo? Che cosa ci faccio qui? Come faccio a controllare Cloud durante i combattimenti e cosa cavolo era un «limit break»? A malincuore, ho messo da parte il gioco e mi sono dedicato ad altri titoli.
Circa un anno dopo il mio infruttuoso tentativo di reimmergermi nel gioco, ho deciso di ricominciare da capo. Era passato abbastanza tempo perché avessi solo un vago ricordo di quelle prime dieci ore di gioco.
Ma al secondo tentativo, ce l’ho fatta. Era il momento giusto: non c’erano delle stupide vacanze in programma e non mi sono fatto distrarre da nuovi giochi.
Specialmente con i titoli più complessi, è importante pensare bene a quando iniziare a giocare. Odio riprendere in mano un gioco dopo una pausa di diverse settimane. Se inizio a giocare a un gioco che dura 50 ore, preferisco farlo tutto d’un fiato.
In «Control», dello studio di sviluppo Remedy, vesto i panni di Jesse Faden, che esplora il «Federal Bureau of Control» (FBC) in cerca del fratello scomparso. Questo misterioso ente indaga su fenomeni paranormali. Di conseguenza, nel suo viaggio attraverso il quartier generale maledetto dell’FBC, Jesse deve affrontare ogni sorta di strani fenomeni. Con il tempo, anche Jesse impara ad avere poteri paranormali: può fluttuare nell’aria e usare la telecinesi per scaraventare via i nemici. Il gioco è parte dell’universo narrativo «remedyverse», a cui appartengono anche i giochi della serie «Alan Wake».
In realtà, le premesse e l’atmosfera misteriosa in stile David Lynch mi avevano subito catturato. E anche il gameplay mi sembrava intrigante. Purtroppo, al momento del lancio, «Control» era pressoché ingiocabile sulla PS4. La vecchia console arrivava a malapena a 30 fotogrammi al secondo. Nelle scene più ricche di azione, l’hardware cedeva e il frame rate precipitava. Godersi il gioco in questo modo era impossibile. Con gran dispiacere ho quindi deciso di disinstallare «Control» dalla PS4.
Dopo aver giocato al capolavoro horror psicologico «Alan Wake 2» (2023), volevo addentrarmi ancora di più nell’intricato «remedyverse». Ho quindi deciso di dare un’altra possibilità a «Control», questa volta su PS5. Con la fluidità garantita dai 60 fotogrammi al secondo, finalmente ho potuto giocarci come si deve. Senza tutti quegli ostacoli tecnici, mi sono immerso nel mondo surreale di «Control» e mi sono innamorato perdutamente del gioco.
Non ha senso giocare a videogiochi con una tecnologia super moderna usando un hardware vecchio e scadente. Non sono un fissato dei pixel o della grafica, ma se le prestazioni tecniche di un gioco mi distraggono dal contenuto, è meglio cercare una soluzione alternativa.
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Il mio amore per i videogiochi si è svegliato alla tenera età di cinque anni con il Gameboy originale ed è cresciuto a dismisura nel corso degli anni.